La seconda sessione del Convegno storico-teologico-pastorale sul Concilio Vaticano II

Nella mattinata del 12 dicembre 2025, sempre nell’Auditorium diocesano “Famiglia di Nazareth” di Rizziconi, si è tenuta la seconda e conclusiva sessione del Convegno storico-teologico-pastorale dedicato al Vaticano II e organizzato dalla Diocesi. In questa seconda giornata, il Convegno ha assunto il tono di una narrazione corale: non un esercizio accademico ma una rilettura colare di una Storia locale intesa come “Storia di salvezza”, intrecciata alla vita concreta di un popolo e dei suoi pastori. Il Concilio, infatti, non è “un pezzo da museo” ma un cantiere ancora aperto, un processo ancora in atto in una continuità che diventa cammino.

Il saluto introduttivo di don Giancarlo Musicò, responsabile del Centro Culturale Cattolico “Il Faro”, ha messo a fuoco l’orizzonte: «meditare il Vaticano II significa meditare la Chiesa totale, popolo di Dio e comunità evangelizzatrice, con una responsabilità educativa non delegabile e una tensione verso una Chiesa “materna”, “tenera”, “umile”, “unita” e “gioiosa”». Nella sua scansione, don Musicò ha ricordato anche una linea di episcopati e di scelte della Diocesi che sono stati una vera e propria ricezione non episodica ma stratificata della grande Assise ecumenica.

A fare da regia in questa seconda sessione è stato l’avv. Michele Ferraro, il quale ha richiamato quanto avvenuto nel giorno precedente e ha rilanciato lo schema del “Convegno in tre dimensioni”: storico, teologico e pastorale. In tal senso, il programma del “secondo giorno” è stato presentato come una progressione: dal passato al presente, fino alle prospettive future. «Restringere lo sguardo sulla Chiesa locale – ha affermato Ferraro – non vuol dire chiudersi, ma rendere lode a Dio per ciò che opera da questa Chiesa fino agli estremi confini della terra».

Il primo intervento storico è stato affidato a don Letterio Festa, direttore dell’Archivio storico della nostra Diocesi, che ha indicato l’origine stessa del Convegno in un lavoro di riordino e valorizzazione del patrimonio documentale della Diocesi che l’Ufficio diocesano per i beni culturali ecclesiastici, guidato dall’ing. Paolo Martino, sta portando avanti. Proprio scavando tra i documenti sono riemersi fondi e tracce capaci di aprire sviluppi futuri.

Da queste carte, la figura di mons. Maurizio Raspini (vescovo di Oppido Mamertina dal 1953 al 1965) è raccontata senza mitizzazioni: non un teologo né un oratore, ma «un vero pastore, un grande parroco, formato sul campo in anni duri e capace di leggere il Concilio innanzitutto come un evento spirituale».

Il vescovo Raspini, infatti, inizia la sua esperienza conciliare dalla preghiera: chiede di pregare per il Concilio, fa recitare ogni sera la preghiera coram Sanctissimo, organizza ritiri del clero e lezioni, e arriva a proporre in tutte le Parrocchie della vecchia Diocesi aspromontana la celebrazione dell’Ottavario per l’unità dei cristiani: un segno non scontato, nel contesto del 1959, di attenzione al movimento ecumenico. In particolare, la Lettera pastorale del 7 marzo 1961, “Tutto e tutti per il Concilio”, redatta in forma catechistica, rivela, secondo don Festa, «le priorità che il vescovo di origini novaresi prospettava per il Concilio: avvicinamento dei “fratelli separati”; giustizia sociale; legame sacerdote-vescovo-papa; devozione mariana e, soprattutto, il desiderio di coinvolgere tutte le anime dei fedeli insieme al vescovo che andrà alle sessioni».

Particolarmente suggestiva la partenza del padre conciliare verso Roma: all’alba del 9 ottobre 1962, in una Cattedrale di Oppido in penombra e gremita di fedeli, mons. Raspini pronuncia parole rimaste impresse nella memoria: «Andiamo anche noi, poveri e piccoli asinelli d’Aspromonte, in viaggio verso Roma per ascoltare e imparare i bisogni e le ansie dell’umanità».

Aperta l’Assise ecumenica, la “giornata conciliare” di mons. Raspini aveva ritmi ben scanditi: arrivo presto in Basilica, recitando il Rosario lungo il tragitto con i suoi accompagnatori; il posto assegnato in base alla data dell’ordinazione episcopale; il pomeriggio di confronto e approfondimento con i vescovi italiani e la sera con i presuli calabresi per ascoltare testimonianze, in particolare quelle del vescovo di Locri, mons. Arduino, già missionario in Cina.

Pur senza fare interventi orali in aula, mons. Raspini ha lasciato traccia della sua partecipazione come padre conciliare attraverso interventi scritti: l’opportunità di affiancare al papa i vescovi diocesani nel governo della Santa Sede e non solo quelli di Curia; la richiesta ecumenica di inserire l’Ottavario per l’unità dei cristiani nella Liturgia romana e le osservazioni sulla formazione dei seminaristi e sulle Scuole cattoliche.

Ma la parte più incisiva, nel “racconto storico” di don Letterio Festa, sta in un episodio collocato “alla fine” dell’esperienza del vescovo oppidese al Vaticano II: durante un intervento in aula sulla necessità di fissare un’età per le dimissioni dei vescovi, mons. Raspini – secondo la testimonianza del suo segretario, don Giuseppe Annichini – si reca subito nella sede della Congregazione dei Vescovi per presentare le proprie dimissioni. Don Festa interpreta quel gesto come una “cesura storica”: «finisce la parabola della vecchia Diocesi e comincia la gestazione della nuova Chiesa di Oppido Mamertina-Palmi che nascerà nel 1979.

La seconda relazione amplia l’orizzonte con le altre radici della Storia della nostra Diocesi: mons. Filippo Ramondino, direttore dell’Archivio storico della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, con solidità di documenti e scorrevolezza d’eloquio, presenta l’esperienza di mons. Vincenzo De Chiara, vescovo di Mileto al Vaticano II, collocandolo nel “passaggio epocale” che la Gaudium et Spes avrebbe esplicitato: dalla concezione statica a quella dinamica ed evolutiva della vita ecclesiale.

Mons. De Chiara risponde alla consultazione preconciliare, ricorda mons. Ramondino, «con una “paginetta soltanto”, essenziale ma densa, il vescovo di Mileto richiamava il moltiplicarsi di dottrine contrarie alla fede; la necessità dell’unità; la disciplina del clero e la centralità della preghiera per evitare i pericoli del tempo». Come mons. Raspini, anche mons. De Chiara affidò a una Lettera pastorale, pubblicata nel 1961, la mobilitazione spirituale dei fedeli della vasta Diocesi miletese: preghiera intensa; sacrifici e penitenza; Messa votiva allo Spirito Santo ogni giovedì; novena; giornata penitenziale; processioni e pellegrinaggi; suono delle campane.

«Il punto distintivo dell’opera conciliare di mons. De Chiara, tuttavia, è la Liturgia – ricorda sapientemente mons. Ramondino – che diventa la chiave pastorale del suo episcopato. Rispondendo a un questionario della Pontificia Commissione di Sacra Liturgia, il vescovo di Mileto attira l’attenzione di mons. Bugnini che chiede copie dei Bollettini diocesani con Lettere pastorali liturgiche redatte tra gli anni 1956-1960 con l’obiettivo di preparare sacerdoti e fedeli alla riforma: partecipazione; ministero dei commentatori; formazione dei chierichetti».

Il racconto avvincente di mons. Ramondino si anima con piccoli particolari: la partenza dalla Stazione di Vibo Marina con una fiaccolata improvvisata; le sistemazioni romane; gli incontri serali con gli altri vescovi e anche paterne “partite a carte”; il piviale bianco indossato nella storica apertura, oggi conservato nella Cattedrale di Mileto: «Sono tessere che restituiscono non un Concilio astratto, ma vissuto, domestico e comunitario».

Quando arriva la Sacrosanctum Concilium, mons. De Chiara la presenta ai sacerdoti, chiarendo lo spirito che l’anima, indicando norme e raccomandando un’applicazione graduale. «Nel farlo, critica la “furia iconoclasta” di alcuni e insiste sulla formazione liturgica: senza formazione, la Liturgia rischia di diventare parola vuota o slogan». In questa linea, la prima concelebrazione diocesana del 1965 viene ricordata come «un dono ritrovato» già richiesta – come testimonia significativamente mons. Ramondino – attraverso una lettera al papa del 1961 di mons. Francesco Luzzi, arciprete di Polistena, che chiedeva la possibilità della concelebrazione per evitare Messe frettolose agli altarini laterali durante convegni e riunioni. «La recezione liturgica si mostra così come un processo che risponde a esigenze pastorali concrete, non a mode», ha affermato mons. Ramondino.

Un passaggio particolarmente importante è il richiamo, da parte del vescovo De Chiara, sull’interesse marginale di alcuni laici e sacerdoti manifestato durante i lavori del Vaticano II e la critica alle cronache giornalistiche che cercano “ciò che fa notizia” interpretando fatti e parole da un proprio punto di vista parziale. Il Concilio, secondo mons. De Chiara, «è ben altra cosa e i suoi frutti non si misureranno in mesi o anni, ma in decenni e secoli».

Dopo la chiusura, il 1966 viene offerto dal papa Paolo VI come un anno giubilare che il vescovo De Chiara coglie per l’attuazione delle speranze conciliari, con pellegrinaggi e un discorso al clero che pone la domanda decisiva: «Che cosa dobbiamo fare?». «Le tre risposte date da mons. De Chiara – ricorda il relatore – sono: studiare i documenti; avere un animo disposto ad accettare ed applicare i decreti conciliari; non ridurre tutto a cambi esteriori ma a vera conversione del cuore».

Il terzo intervento cambia passo e sensibilità: don Antonio Lamanna, con grande abilità e saggezza, affronta la figura di mons. Santo Bergamo, primo vescovo della nuova Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi partendo da un pregiudizio diffuso: «un bravo vescovo, però… mediocre» e rovesciandolo alla luce della verità che viene fuori luminosa dai documenti d’Archivio. La sintesi proposta da don Lamanna è efficace: «saper essere amico, padre e pastore insieme e un motto episcopale che diventa programma esistenziale: Altera alterius onera (portare i pesi gli uni degli altri)». Don Lamanna accenna ad un contesto che rende particolarmente difficile giudicare l’opera pastorale del vescovo Bergamo nella nuova Diocesi con categorie ordinarie: «la precarietà territoriale tra Mileto e Oppido; l’incertezza canonica; le umiliazioni interne ed esterne pur sempre ecclesiali. In questo scenario, si potrebbe essere tentati di classificarlo come “vescovo di normale amministrazione”» ma la tesi proposta da don Lamanna è un’altra: «se i frutti si vedranno con gli altri episcopati successivi, non bisogna dimenticare che “per fare un albero ci vuole il seme” e mons. Bergamo quel seme lo ha gettato nelle difficoltà, credendo nella koinonia tra vescovo e sacerdoti come elemento essenziale per manifestare Cristo».

La biografia, ricostruita da don Lamanna con molti dettagli, racconta un sacerdote di Scilla, formato a Reggio e Catanzaro, parroco a lungo, con vari incarichi diocesani di rilievo, uomo di carità e di pazienza, «capace di ridimensionare situazioni e lasciare ampia libertà di scelta e di azione». La sua storia episcopale passa per Oppido come delegato vescovile, poi per Rossano come amministratore sede plena in una situazione non idilliaca (convivenza con l’anziano vescovo mons. Rizzo «separati da un muro» e poi di nuovo tra Mileto e Oppido come ausiliare e amministratore, mentre si tenta di ridisegnare l’assetto ecclesiale della Piana.

Don Lamanna presenta ai convenuti una frase-chiave di mons. Bergamo, tratta dalle relazioni a Roma: «non è possibile un piano organico con un sottofondo giuridicamente incerto» e descrive anche due fenomeni che gravano sul territorio: «l’emigrazione e il cancro della Mafia che domina incontrastata, oltre alle preoccupazioni legate allo sviluppo economico imminente. In questo contesto, l’“attendismo” può essere prudenza ma anche ritardo che fa perdere l’appuntamento con la Storia».

Secondo la ricostruzione di don Lamanna, la precarietà rischiava di produrre «atrofia pastorale», per cui il punto d’appoggio che mons. Bergamo prova a tenere fermo è duplice: comunione e catechesi. «Da un lato, il suo stile di governo verso i sacerdoti: non intervento autoritario ma discussione e pazienza; sacerdoti non esecutori ma collaboratori responsabili. Dall’altro, la convinzione che senza una catechesi adeguata non esiste attività pastorale».

È importante notare come don Lamanna descrive il metodo catechistico usato dal nostro primo vescovo: «mons. Bergamo ripete di non aver dato disposizioni o norme, preferendo stimoli e occasioni di riflessione, rispettando i ritmi di crescita di persone e Istituzioni. Anche questa è recezione del Vaticano II: non solo applicazione rapida di riforme ma pedagogia ecclesiale».

Quando finalmente nasce la nuova diocesi, il racconto di don Lamanna registra un’accelerazione: «rinnovamento delle zone pastorali; fondazione del Consiglio presbiterale; interrogativi sul rinnovamento della catechesi, fino a un primo Convegno pastorale e a un Piano pastorale centrato sulla famiglia nella Piana». Ma proprio nel momento in cui il percorso sembrava potersi stabilizzare, arriva la frattura: l’11 ottobre 1980, mons. Bergamo muore improvvisamente, «nel sonno, per infarto». Don Lamanna legge in questo fatto una coincidenza simbolica: l’11 ottobre 1980, diciotto anni esatti dopo l’apertura del Concilio. La cronaca riportata dai documenti proposti dal relatore evoca una Comunità attonita e i funerali con una Cattedrale di Oppido e una vasta piazza «gremite all’inverosimile», fino alla traslazione della salma in Cattedrale nel 1983.

E la conclusione di don Lamanna torna al punto essenziale: «paternità nella comunione; portare pesi più grandi di sé; non tirarsi indietro; credere nella bellezza del Presbiterio in comunione col vescovo come manifestazione dell’amore di Cristo», questo il vero lessico conciliare esplicitato dal vescovo di Oppido-Palmi, secondo la ricostruzione del relatore: «Sacrosanctum Concilium come crescita della vita cristiana; Lumen Gentium come Cristo che risplende sul volto della Chiesa; Dei Verbum come ascolto e la Gaudium et Spes come condivisione delle gioie e delle angosce degli uomini, soprattutto dei poveri e di chi soffre».

Con il suggestivo e solido intervento dell’ing. Paolo Martino, la sessione entra nel “visibile”: chiese nuove e adeguamenti liturgici nella Piana durante e dopo il Concilio. L’ing. Martino prepara opportunamente il terreno con due passaggi: il senso dell’edificio cristiano e un percorso storico locale, mirabilmente tracciati. Il presupposto è chiaro: «la chiesa-edificio non è neutra; è un linguaggio con cui la Comunità parla a sé stessa e al mondo e nella Storia cristiana ha scandito tappe e spazi del cammino di fede (annuncio, conversione, battesimo, vita nuova)».

Il sintetico ma fondato excursus storico dell’ing. Martino è necessario per capire cosa accade dopo il Vaticano II: dall’architettura gotica come luce e speranza, al barocco come risposta “imposta” alla Riforma protestante, fino a una rottura con la Rivoluzione francese, quando la risposta cattolica diventa “involutiva”, con ritorni a neo-stili e modelli del passato. Dentro questo “clima”, l’ing. Martino legge anche la storia delle chiese diocesane: «ricostruzioni “in fotocopia” dopo il terremoto del 1908, con una grande occasione perduta sul piano architettonico, mentre gli edifici civili prendevano strade più creative (ad esempio il liberty di Reggio e Palmi)».

La parte più “tagliente” dell’intervento riguarda la prima ricezione materiale del Concilio: «l’euforia di rinnovamento e la poca preparazione innescarono una “furia distruttiva” che ha fatto sparire altari monumentali, balaustre, pulpiti, predelle, paramenti neri e, talvolta, ha prodotto interventi improvvisati e dannosi». È un passaggio che non vuole fare facile polemica ma registrare una perdita irrimediabile di patrimonio artistico che però, grazie all’opera dello Spirito, diventa comunque – secondo l’intelligente e profonda lettura dell’ing. Martino – una via per iniziare ad attuare irreversibilmente la riforma liturgica voluta dal Concilio: «il Concilio c’è stato ed è arrivato “subito” al popolo proprio attraverso la trasformazione degli spazi sacri: la nuova celebrazione è partita rapidamente anche se spesso con mense mobili seriali e amboni indegni o duplicati, con confusione tra presidenze e “cattedre” e perfino spostamenti discutibili dei fonti battesimali sul presbiterio».

Quindi, l’ing. Martino, da ottimo tecnico, quantifica: «dopo il Vaticano II, nella nostra Diocesi sono state costruite ben 38 chiese per circa 18.000 metri quadri di “superficie liturgica”». È un dato che, nella gremita “sala blu”, risuona come la misura dell’impegno di Comunità e parroci che, spesso attraverso storie “di quasi eroismo” e, in alcuni casi, partendo da “chiese baraccate” sono riusciti a dare al popolo un degno luogo di preghiera. Da qui l’analisi dell’ing. Martino diventa comparativa: «alcuni edifici sono alimentati da nostalgie del passato; altri tentano linguaggi nuovi». In tal modo, attraverso il suggestivo uso di opportune immagini, l’ing. Martino mostra esempi e commenta scelte, a volte con la sua caratteristica ironia e con dubbi espliciti sulla reale partecipazione “actuosa” dei fedeli in certe tipologie ma offre anche dei criteri per una retta interpretazione: «il giudizio sulle chiese moderne, spesso, è fatto di luoghi comuni (“fredde”, “vuote”, “disorientanti”) senza conoscere storia dell’edificio e, soprattutto, delle persone che le hanno volute e costruite. Bruttezze e bellezze non appartengono solo al nuovo!».

Il cuore dell’intervento, quindi, è la serie di domande finali che l’ing. Martino ha scelto di consegnare agli atti e che diventeranno una vera propria “Guida” all’agire ecclesiale in questo delicato e importante ambito: «Quale coinvolgimento delle Comunità c’è stato nelle scelte? Quale comprensione della Liturgia postconciliare? Quale accettazione di nuove chiese e adeguamenti? Gli architetti sono stati all’altezza? E, soprattutto, la committenza ecclesiastica (Diocesi e Comunità) era ed è “matura”?».

Infine, il nostro vescovo, mons. Giuseppe Alberti, condivide le sue conclusioni rifiutando l’idea di “chiudere un discorso” ma lancia l’invito a raccogliere gli stimoli venuti dalle due sessioni per “aprire” uno sguardo che porta a camminare avanti. La prima domanda che pone, in linea con il suo stile schietto e diretto, è programmatica: «A che punto è la receptio nella nostra Diocesi?». Alla luce di questo importante e centrale interrogativo, il vescovo vede già gli atti del Convegno come “un punto di ripartenza” da cui riprendere il cammino di recezione del Vaticano II nella nostra Chiesa a tutti i livelli: presbiteri, diaconi, laici impegnati, Consigli pastorali, Caritas, Gruppi liturgici: «La comprensione del Concilio non può essere un fatto solo per “addetti ai lavori” ma deve diventare un imperativo categorico per tutti se si vuole una Chiesa viva e attiva dentro la Piana e dentro la Calabria che sia veramente seme fecondo e presenza profetica».

Nel cuore del suo breve ma illuminante intervento il vescovo offre una efficace lettura del Vaticano II che diventa vero e proprio metodo per il quotidiano agire pastorale: «ascoltare, non partire da precomprensioni, evitare giudizi generici e letture ideologiche che non vengono dallo Spirito. Da qui la scelta di un discernimento comunitario e un allenamento alla sinodalità come modo di essere Chiesa oggi».

Mons. Alberti richiama, poi, efficacemente la figura di mons. Bergamo con parole sentite e forti che toccano in profondità il cuore dei presenti e illuminano di nuova luce la figura colpevolmente posta in penombra del primo vescovo della nostra Chiesa: «è stato un uomo che ci ha messo la vita; un martire silenzioso che ha indicato la sinodalità come figlia di una Chiesa-comunione. Sono ancora importanti per noi, fedeli della Piana di oggi, alcuni suoi slogan che risuonano assai attuali e pastorali: primato della Parola; primato dell’ascolto; invocazione più intensa dello Spirito Santo».

Infine, tirando le fila delle due intense giornate, mons. Alberti insiste: «Ricominciamo la ricezione del Vaticano II dai Gruppi liturgici parrocchiali e dalla formazione da cui passa la ministerialità vera. Non scatti ideologici, né nostalgie ma traditio Ecclesiae: non distruggere ciò che c’era prima ma fare Storia con tutto il popolo di Dio, non solo con i vescovi».

Così si è chiusa questa seconda sessione del riuscito Convegno: non con una conclusione “che archivia” ma con una consegna che diventa impegno pubblico della Chiesa locale: vivere oggi, qui, il Concilio come memoria e profezia.

Sac. Letterio Festa